mohammed

PROFESSIONE : RIFUGIATO (SIRIA)

(di Annamaria Bruni)

Attraversando la Beqaa, valle tempestata di piccoli paesi sciiti e cristiani, si arriva ad Arsaal, un piccolo villaggio sunnita.

Questo villaggio è quasi una roccaforte. Si nasconde in una valle tra le montagne come se volesse nascondersi alla vista e sottrarsi al vento che soffia impietoso nella maggior parte delle stagioni. Essendo uno dei pochi villaggi sunniti della zona, i rifugiati siriani che scappano alle violenze del regime di Assad vi trovano rifugio, considerando anche il fatto che è  a ” due passi” dal confine. Non si tratta proprio di due passi, visto le montagne che dividono la Siria dal confine libanese, ma molti siriani disperati decidono di attraversarle a piedi pur di salvarsi.

Arsaal attraversa un momento delicato, ci sono stati scontri e manifestazioni a seguito della cattura da parte dell’esercito libanese di un cittadino arsaaliano reo di aver rapito nel 2011 due estoni a scopo di ricatto.

La provocazione è stata grande: dopo la preghiera del venerdì, l’esercito è entrato in villaggio per arrestare l’indagato, ma alla fuga di questi, ha aperto il fuoco ferendolo.

La popolazione non ha gradito e ha risposto con violenza, tanto che due soldati libanesi sono morti negli scontri. Da allora il paese è sotto assedio dell’esercito libanese, le due strade che portano ad Arsaal pattugliate giorno e notte, e nessuno può uscire o entrare senza il consenso dei soldati.

Il governo ha stilato una lista di 120 persone da arrestare. Con questa decisione vuole dimostrare in questo modo che nessuno può restare impunito dopo l’uccisione di due soldati.

Ma il paese non ci sta.

Le attività commerciali sono paralizzate, i cittadini tesi e pronti ad agire. Il sindaco del paese ha già buttato benzina sul fuoco giurando che se l’esercito entrerà di nuovo nel paese, tutti i villaggi sunniti che si trovano nella zona di Tiro interverranno a sua difesa.

I rifugiati oltre la loro guerra devono ora convivere anche con questa situazione di emergenza, ma sono troppo occupati a sopravvivere per far di nuovo parte di una resistenza.

In questa atmosfera ho incontrato i bambini rifugiati siriani, nel doposcuola organizzato dall’ UNICEF e l’ong Terre des Hommes, e ho visitato le loro famiglie, devastate da due anni di guerra.

Ecco alcune storie.

 

LA STORIA DI NAJAD EL JOMAA

Najad ha 24 anni e viene da Homs, una delle città più martoriate dalla guerra siriana.

Quando il padre ha preso la decisione di lasciare la città, e di recarsi ad Arsaal per sfuggire alla guerra, le ha raccomandato di non prendere troppa roba con sé, ” Si tratterà di un mese o due, ritorneremo presto a casa”.

Questo succedeva nel gennaio del 2012, e dopo un anno la famiglia di Najad si trova ancora in Libano, nella stessa casetta fatta di due stanze e un bagnetto fuori dal cortile.

Il papà di Najad era un ingegnere idraulico, lavorava con il figlio ad Homs mentre Najad studiava farmacia all’università. Najad è bella, intelligente ed ora è lei che porta  a casa l’unico stipendio lavorando come educatrice per i bambini rifugiati siriani.

Ad Homs hanno lasciato tutto, anche una sorella, che si è rifiutata di lasciare la sua città insieme al marito.

La famiglia di Najad è grata dell’accoglienza da parte dei libanesi nel paesino di Arsaal, ma nei loro occhi c’è solo il desiderio di ritornare al più presto in Siria.

Hanno attraversato un lungo viaggio per arrivare in Libano, cambiando ripetutamente mezzo di trasporto, e hanno scelto Arsaal perché è uno dei pochi villaggi sunniti in una valle, quella della Beqaa, gremita di paesini sciiti.

“Homs mi manca, molto.” dice Najad  “Ci penso ogni giorno, penso alla vita che avevamo prima della guerra e non mi capacito. Vivevamo in  tranquillità, anche se sentivo la forte discriminazione a favore degli alawiti. Comunque la convivenza era pacifica, nonostante la dittatura di Assad. Ora ci sentiamo persi, le nostre speranze che il conflitto finisca sono sempre più fievoli, e il nostro sorriso sempre più spento.”

Najad sente la responsabilità della famiglia sulle spalle, lei, che fino ad un anno fa aveva come unico impegno il conseguimento della laurea.

Ma i suoi occhi non sono spenti completamente, lavorare con i bambini siriani la aiuta a sentirsi viva e utile alla sua comunità, la spinge a guardare il futuro con meno terrore.

 

Volevo fare la farmacista, non so se ci riuscirò qui, ma una nuova porta mi si è spalancata davanti : lavorare con i bambini, potergli dare quello svago e quella stabilità di cui hanno bisogno dopo aver affrontato un periodo così difficile. Almeno loro riescono a dimenticare in fretta, al contrario di noi ragazzi” “E’ vero” – annuisce  la sorella di Najad, che ha 17 anni – io lavoro come volontaria per Terre des Hommes, e mi rendo ogni giorno più conto che  i più piccoli hanno la capacità di evadere facilmente, attraverso il gioco, alle tragedie che abbiamo vissuto. Al contrario i miei coetanei covano spesso aggressività, che celano con una finta rassegnazione alla vita. Lo stato d’animo generale è di aver perso qualcosa, che nessuno gli renderà mai, nemmeno la sconfitta di Assad.

MOHAMMED JALAUT

” Arsaal non mi piace” – esordisce Mohammed, otto anni, ” la mia città era molto più bella!”

Viene dalla zona di Masciaria, che si trova a Nord- Est del paese, ed è stata per tanto tempo zona di commercio tra libanesi e siriani.

Non ricorda di preciso quando è arrivato ad Arsaal, ma ricorda perfettamente che l’hanno raggiunta dopo che il papà è morto per mano dell’esercito di Assad. Un viaggio lunghissimo per un bambino della sua età, fatto di lunghe camminate e passaggi in macchina tra le montagne che dividono la Siria dal Libano.

Però la scuola gli piace, gli piace giocare con gli altri bambini e con i suoi fratelli, ne ha quattro, ” e non voglio sorelle, le femmine sono noiose.”

Ha gli occhi vispi, e quando gli chiedo che vorrebbe fare da grande sussurra ” Il dottore, quello che cura i bambini.”

La sua famiglia vive in un edificio ancora in costruzione alle porte di Arsaal, di proprietà dell’ Imam del paese, che ha concesso ospitalità ai rifugiati barattandola con lavori di manovalanza per terminare l’edificio.

In questa diroccata palazzina ci vivono un numero considerevole di famiglie, la stanza dove vive il piccolo Mohammed ne ospita ben quattro, tutti parenti tra loro, e nove di questi sono bambini. Diciotto persone dividono una stanza  che non sarà più grande di venticinque metri quadri.

” In Siria eravamo vicini di casa, ognuno di noi aveva il suo pezzo di terra e lo coltivava, siamo contadini da generazioni. Dopo la nascita del conflitto abbiamo deciso di lasciare il paese e trasferirci in Libano, le nostre case sono servite come rifugio per la Free Army ( loro non li chiamano mai ribelli), ma dopo l’uccisione di un componente le hanno abbandonate. Da allora non abbiamo avuto più notizie sullo stato delle nostre case, ma molto probabilmente sono state distrutte dai bombardamenti. ”

In un tappeto vicino scorgo un fagotto, e dentro un neonato di un mese dorme quieto.

La mamma è poco distante, tiene in braccio un bimbo di due anni, anch’esso figlio suo. Ne ha altri 3 , tutti maschi. ” Siamo arrivati sei mesi fa”- dice-“Io ero incinta di sette mesi,abbiamo viaggiato per giorni e alla fine mio figlio è nato in Libano. Suo padre è morto prima che nascesse, faceva parte dell’esercito di liberazione siriano. I proiettili gli hanno trapassato la testa da parte a parte” mi racconta impassibile, come se parlasse di qualcun altro, sconosciuto e lontano,” Era un combattente, ed è morto per la libertà, per il nostro paese.”

Questa è la cosa più sconvolgente della guerra: non hai tempo di piangere e disperarti, non hai tempo di lasciarti andare, impietriti dal dolore si va avanti come macchine, lo si fa per i propri figli, e la storia ci insegna che  alla fine l’essere umano si abitua ad ogni tipo di crudeltà per spirito di sopravvivenza.

LA PICCOLA AYA ASSI

 

Tra tutti Aya è la bambina che mi ha colpito di più. La sua storia è forse la più triste ed anche l’unica incompleta.

Aya viene dal paesino di Ksair, l’estate li ha accolti al loro arrivo, e su come sono arrivati ad Arsaal ha grandi dubbi. Ha nove anni e una marea di lentiggini le fanno da cornice al viso.

Mi dice con un filo di voce che ha un fratello e una sorella, ma la mamma non c’è più. La mamma è morta in Siria con un altro suo fratello. Poco dopo  avermelo detto si alza e in angolino  piange in silenzio. Subito viene assistita da un’ educatrice che la bacia e la rassicura. Vedere tanta dignità in un questo pianto di bambina mi ghiaccia il sangue,  queste lacrime sono lacrime da adulta. E’ come se non potesse permetterselo, nonostante a nove anni abbia passato un’ esperienza così terribile come la guerra .

Le chiedo se desidera andare fuori a giocare ma mi risponde con le guance rigate dal pianto che vuole restare. Oltre alla mamma ricorda che durante la fuga, tra le montagne, lo zio e il cugino sono stati feriti, ma ora stanno bene e vivono vicino a casa sua.

Il padre si è risposato, la nuova mamma di Aya non supplisce al ruolo della madre,si vocifera nella scuola che sia non distante dalla figura della matrigna di Cenerentola.

Ad Aya le piace studiare, e le piace molto, e ogni mattina non vede l’ora di andare a scuola. Ma se le chiedi cosa vorrebbe fare da grande risponde sicura

” La mamma, e mia figlia la chiamerò Mariam” dice stringendosi all’educatrice Terre des Hommes, e sembra voglia sprofondare in quell’abbraccio.

Usa spesso il nero per colorare e il topo è il suo animale preferito.

La sua famiglia si è già trasferita svariate volte da una casa all’altra e quando decidiamo di andare a trovarli abbiamo una brutta sorpresa:

Aya non c’è più.

La famiglia che viveva nella stessa stanza insieme a loro ci spiega che sono partiti la mattina presto, e che si trovano a 30 km dal villaggio.

Aya ancora una volta subirà il trauma dell’abbandono, ancora una volta dovrà sistemarsi in un’altra casa, con altri rifugiati, ma soprattutto non potrà ritornare nella scuola di Arsaal. Non giocherà più con i suoi compagni, con i quali divideva i giochi da un anno, e non avrà più il supporto dell’educatrice, per la quale provava un attaccamento profondo.

Aya ha perso tutto ancora una volta, dopo la madre,la casa, la sua terra.

Ed adesso anche la scuola di Arsaal, finora l’unico punto stabile e felice della sua vita in Libano.

 

KAMAL BALLOUT

 

Kamal è stato il primo adolescente che ho intervistato, e quello che volontariamente ha deciso di parlare.

Scrutando all’interno dell’aula ho visto la sua mano tendersi alla domanda dell’insegnante su chi volesse raccontare la propria esperienza.

Suo fratello di diciasette si trova nella stessa classe, mentre gli altri due fratelli lavorano.

 

Kamal arriva da Zairs, in periferia di Homs, e il suo arrivo ad Arsaal avviene quattro mesi fa, nel pieno della tempesta di neve che quest’inverno ha paralizzato la valle. Temperature rigidissime che non  si registravano da tempo. Kamal e la sua famiglia hanno percorso a piedi tutte le montagne che dividono la Siria dal Libano. ” Non riuscivo più a camminare, avevo i piedi congelati, letteralmente. Ad ogni passo mi sembrava mi si spezzassero in mille pezzi. Mio fratello mi ha sostenuto per un bel pezzo, non ce l’avrei fatta senza di lui.”

Anche la madre di Kamal è vedova, il padre faceva parte della Resistenza ed è stato fucilato una settimana prima della partenza per Arsaal.

Lo zio di Kamal fuma lentamente e ricorda ” Nel nostro paese molti uomini facevano parte dell’esercito di liberazione , Assad ha dunque deciso di bombardarlo completamente per impedire alla Free Army di usare le case abbandonate come rifugio e  deposito di armi. Lo ha proprio raso al suolo, bombardando anche il nostro cimitero, non si sa mai che i morti potessero risorgere e unirsi ai ribelli….Assad nel dubbio ha sterminato tutto e tutti.” racconta con un sorriso beffardo.

“Un mio fratello è ancora li, ma lo stiamo andando a prendere, speriamo di riuscire a nasconderlo in una cisterna per poter passare il confine.”

In questa piccola villetta 39 persone vivono insieme, ovvero sette famiglie, tutti imparentati tra loro. L’hanno dipinta di mille colori, verde blu, e viola, tanto che mette allegria. I bambini si raccolgono intorno alla stufa per scaldarsi e guardare un po’ di televisione.

 

Molti di loro frequentano il dopo scuola organizzato da Terre des Hommes, sono tutti contenti di andare a svolgere attività scolastiche per  quelle due o tre ore al giorno, soprattutto quelle ricreative, dove disegnano inventano e colorano. Mi giro e chiedo a un bimbetto seduto vicino a me se gli piace la scuola. Lui mi risponde candido ” Sì.….”  – ” E cosa ti piace di più?” riflettendo risponde “…In questa scuola non ci picchiano mai!”.

 

Rientrando a Tiro ho pensato a lungo a questi racconti, e a questi bambini.

Ai loro silenzi, ai loro sorrisi, e li ho paragonati ai bambini che conosco io, lontani anni luce da queste atrocità.

Ho visto occhi di bambini scintillare nell’oscurità, emanavano una serenità, un’allegria che poche volte ho avvertito, quella gioia di vivere che dovrebbero possedere di diritto.

Ma gli occhi dei bambini dopo la guerra non sono più gli stessi, un’ombra oscura li vela, e quella luce che gli è stata tolta difficilmente gli verrà ridata.

Scrutano ansiosi di una risposta ad un perché inevitabile.

Gli occhi di questi bambini ti penetrano il cuore come un coltello affilato, i tuoi sogni diventano incubi, il loro ricordo incancellabile.

Ringrazio Mauro Clerici – Responsabile per il Libano di “Terre des Hommes
per il suo prezioso supporto.

Annamaria Bruni




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